Bepi Moro e gli
altri
Il portiere dell'impossibile
Chi non ha conosciuto
il portiere Giuseppe Moro, o non ne ha sentito parlare, non può sapere
come in uno stesso atleta possano convivere il tutto e il niente, il possibile
e l'impossibile, il calcio sublime e il calcio misero. Se si dovesse (e potesse)
eleggere la più forte squadra nazionale di tutti i tempi e di tutti i
Paesi, l'Ungheria di Puskas certo potrebbe aspirare al titolo. Una macchina
da gol, un sistema tattico d'avanguardia, uno spettacolo ininterrotto.
A noi, Puskas e i suoi rovinarono la festa dell'inaugurazione dell'Olimpico,
il 17 maggio 1953. Tra l'altro era una Nazionalroma, poichè comprendeva
ben cinque giallorossi e il portiere laziale Sentimenti IV. I romanisti erano
Bortoletto Grosso Venturi, vale a dire l'intera linea mediana, più Pandolfini
e Galli. Fu un 3-0 tranquillo e distratto: tanto per giocare e far festa. Nel
senso che non ci fu partita.
Quest'Ungheria cosmica, Giusepe Moro aveva saputo fermarla da solo quattro anni
prima a Budapest. I magiari non avevano ancora raggiunto la perfezione, non
c'era Hidegkuti che rappresentava la cerniera del meccanismo tattico, ma la
squadra era già quella, con Puskas, Kocsis, Bozsik e gli altri. Fu un
1-1 con gol di Carapellese, fu una ineguagliabile dimostrazione di bravura di
Moro che parò tutto. Gli ungheresi che se ne intendevano, e che in circostanze
del genere avevano sempre fatto dieci gol, alla fine gli fecero ala, mentre
Moro usciva dal campo: il trionfo del vincitore. Dopo aver annunciato l'arrivo
di Ghiggia, Renato Sacerdoti concluse anche quello di Giuseppe Moro (che giocava
nel Bari) e di Celestino Celio, un centrocampista di grande talento e di riservato
comportamento. Perchè mai un fuoriclasse come Moro ha giocato solo nove
volte in Nazionale? Perchè accanto ai suoi prodigi c'erano le sue stranezze.
Moro non commetteva errori comuni a tutti gli altri portieri di questo nostro
mondo calcistico, lui si assentava mentalmente dalla partita. Come se non ci
fosse. Tanto bastava perchè ne scaturissesero maligne insinuazioni che
lui e questo era l'aspetto più singolare di tutta l'insolita vicenda-
non si preoccupava minimamente di contestare. Anzi, si divertiva ad alimentare
i sospetti. Era fatto così. Un matto? No, era solo uno che praticava
uno spensierato vagabondaggio spirituale: evasioni che lo portarono, ovviamente,
a commettere un'infinità di errori che complicarono molto la sua vita.
Mettetelo accanto a Bronée, e immaginate quale artistica coppia di disorganizzati
la Roma avesse costituito.
Era la Roma 1953/54, che si era trasferita all'Olimpico e che raggiungeva incassi-record
in Italia. Una Roma che procedeva ovviamente a strappi, che era capace di tutto,
che si avvicinava alle prime posizioni senza mai entrare in lotta per il titolo.
Il mite allenatore Varglien non fu in grado di governare una situazione così
complessa, e la Roma pensò di affiancargli l'inglese Jesse Carver, che
con Varglien aveva lavorato alla Juve: insieme avevano vinto il titolo 1950.
Varglien, gentiluomo di antico stampo non accettò il compromesso, e preferì
lasciare la panchina tutta a disposizione di Carver. Il campionato non era ancora
arrivato alla sua metà. E Ghiggia? Giocava bene, era brillante, pìaceva
alla gente, ma non poteva incidere in modo decisivo. Aveva una naturale regalità
da campione del mondo; si innamorò pazzamente di Roma, credette di poterla
conquistare con i suoi dribling; viveva giorni senza rinunce; giorni dalle lunghissime
sere, dagli orizzonti lontani, dagli infiniti spazi da conquistare.
Gli piaceva essere al centro dell'attenzione. Inaugurò un bar tra via
del Tritone e piazza Barberini, cominciò una serie di speculazioni sbagliate.
Si sarebbe trovato infine a mal partito, e lungo la strada di questo racconto
ritroveremo un Ghiggia diverso, pieno di guai. Helge Bronée invece andò
subito sbat tere contro l'intransigenza di lesse Carver che non stette a pensarci
molto: lo tolse di squadra e lo sostituì definitivamente con Celestino
Celio, affidabilissimo in campo ma dal carattere non certo facile, neppure lui.
Celio soffriva di tenaci allergie, la più acuta nei confronti dei giornalisti.
Intanto la Roma aveva incontrato altri celebri capitani di ventura, come Stefano
Nyers e Gunnar Nordhal, carichi di gloria e di ferite. Aveva incontrato un uomo-simbolo
come Giacomino Losi; un mattatore come Dino Da Costa; e infine Raggio di Luna
Selmonsson, l'uomo che per poco non provocò una rivoluzione laziale;
soprattutto incontrò l'ineffabile «Piedone» Manfredini.
Tratto da La mia Roma del Corriere dello Sport
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